Fortunato Calvino La Statua - Ordinaria violenza - Vico Sirene


IL TEATRO TRA REALTA’ E POESIA

Servizio di Maddalena Porcelli


Il libro di Fortunato Calvino è intenso e illuminante, talvolta triste, ma anche divertente e ironico. Vi sono raccolte tre opere drammaturgiche, la prima delle quali, La Statua, messa in scena nel 1990, è anche il suo primo lavoro come autore. Seguono Ordinaria violenza del 2006 e Vico Sirene del 2009.I tre testi solo in apparenza possono risultare distanti, essendo, in realtà, attraversati da sottilissimi nessi, fili quasi trasparenti che silenziosamente s’intersecano, per restituirci infine verità complesse, realtà che spesso si preferisce occultare. La Statua, ambientato nella Villa Comunale di Napoli, è intriso di un’atmosfera fiabesca, dai forti accenti poetici. Narra la vicenda di un anziano barbone convinto, nella sua follia, che la donna da sempre amata, persa prematuramente, sia imprigionata, in virtù di un crudele maleficio, dentro una statua di marmo e, nell’attesa che ella torni libera, trascorre tutto il suo tempo accanto a lei, prendendosene cura con amore e dedizione assoluta. Nulla può interporsi tra loro. E l’arrivo di un giovane arrogante, che avrà la pretesa d’impossessarsi della statua, avrà un esito tragico, poiché l’anziano  si rifiuterà di farsi da parte e sarà per questo ucciso. L’incontro-scontro tra i due, entrambi emarginati,  diventa esemplare di un contrasto di epoche contigue ma distanti, nei modi quanto nei contenuti culturali. Il vecchio, dal cuore puro e ingenuo, è aggrappato al suo sogno, alla sua follia, che è atto di libertà estrema, che non si piega alle regole imposte; il sogno, puro e incontaminato, sarebbe destinato a soccombere di fronte alla realtà se non avesse quella risorsa magica e incomprensibile della follia. Il giovane, invece, è segnato indelebilmente da una realtà che non concede altro che disperazione cinica. Calvino non emette sentenze, il suo è esercizio d’indagine mai moralistica e in questo si rivela il suo valore, in quella capacità di scrutare nella psicologia dei suoi personaggi. Calvino sa, o meglio sente, che è bene formulare pensieri dai fatti e non viceversa, al di là delle mode che invocano una sociologia pregna di concetti e poco attenta ai sentimenti.  Raccontare la cultura, il pensiero di chi è relegato ai margini, o reso oggetto di studio teorico, e restituirgli dignità di soggetto è operazione ardua, è la capacità di dare alla vita un ritmo essenziale, è comprensione e riflessione sulla natura e sul suo destino. Calvino ci riesce perché è essenzialmente un poeta e lo si sente nella sua prosa e nel senso del ritmo che dà alla scrittura (all’utilizzo di un dialetto mai scontato), in quella capacità di farci riflettere in un orizzonte più vasto, dandoci della realtà un’immagine ricca e sfaccettata. L’umanità che rappresenta, i suoi racconti “neri”, ci fanno riflettere sulle illusioni e le passioni che possono travolgere chiunque. Momenti di grande poesia traspaiono nei monologhi dell’anziano, nel suo dialogo con la statua, in quella volontà ostinata di perseverare nel sogno, anche a costo della vita stessa. E c’è poesia anche nella disperante desolazione del giovane che, pur cedendo alla lusinga del sogno, risulta incapace di provare la benché minima emozione, sospinto soltanto  dall’esclusivo bisogno di rivalsa sul più debole, da quella smania di possesso che riflette una realtà depauperata dei sentimenti e tutta protesa al soddisfacimento immediato, insensato e fine a se stesso. Ma l’indagine dell’autore  è profonda e affronta il problema anche dal punto di vista psicologico, il che si  evince dalle parole dell’anziano e dal monologo del giovane con la statua. Il giovane non potrà mai capire la bellezza di quell’amore poiché è schiacciato dal peso delle proprie frustrazioni e l’unica strada per lui percorribile sarà lo scatenamento della rabbia come riscatto dalle umiliazioni subite. Ecco che alfine egli risulterà l’unica vera vittima dello stato delle cose. La capacità espressiva di Calvino sta tutta qui, nel suo essere radicale e vero, perché il radicalismo di certe tematiche non può che originare  stati d’animo universali in quanto l’orrore è sempre, inevitabilmente, l’altra faccia della pietà, del bene. La metafora della statua, intesa come rifugio ma anche come veicolo dei pericoli e del caos esterno sempre in agguato connota l’unità di spazio che a sua volta serve a definire le differenze temporali. Molti, dicevo, sono i fili che tengono unite le storie raccontate da Calvino, testimone implacabile di un’umanità sempre relegata nell’ombra e che acquista, grazie alla sua sensibilità umana, piena dignità letteraria. Storie segnate dalla solitudine e dalla violenza, ma capaci d’indurre a una comprensione amorevole pure i più incalliti scettici. Così in Ordinaria Violenza si affronta il tema della disperazione di donne sopraffatte dalla violenza maschile e anche qui si può scorgere l’elemento psicologico che  descrive l’animo frustrato di uomini immiseriti da un’esistenza squallida, incapaci di competere con donne migliori e più forti di loro e il cui obiettivo resta l’inutile, gratuita sopraffazione. Il testo teatrale è diviso in due atti unici, scanditi dal medesimo spazio scenico ma da un tempo storico diverso, l’uno ambientato nell’immediato dopoguerra, in un clima di miseria e ristrettezze nel quale si consuma il dramma di una donna indotta alla prostituzione che subisce la violenza di un uomo afflitto dalle nevrosi della guerra, l’altro  ambientato in epoca contemporanea, stavolta in un contesto piccolo borghese (definito dall’utilizzo di un italiano anonimo), dove si consuma il dramma di un’altra donna, incapace di ribellarsi alle convenzioni sociali e a un uomo profondamente malato, imbevuto di pseudovalori cattolici per i quali una donna è resa sporca dal sesso e secondo i quali  la sessualità maschile va vissuta come scatenamento degli istinti bestiali solo fuori dalle mura domestiche.  L’ultimo lavoro, Vico Sirene, è l’affresco di una realtà che ancora sopravvive ma che l’autore quasi rimpiange come perduta,  di fronte al sopravanzare di modelli più sterili. E’  la storia, tenerissima, di un gruppo di omosessuali che condividono le angosce, le delusioni, le difficoltà  di vivere, in un mondo che continua a discriminare il diverso e nel quale non vi è mai sicurezza, neanche di sopravvivenza. Quando Susy, una di loro, sarà uccisa in modo brutale e vile, la comunità si stringerà intorno a questo immenso dolore. Anche qui, l’omicidio di Susy ha la sua matrice in quella mentalità  ipocrita, connotata dalla repressione e dalla repulsione del diverso e che sono alla base di una cultura bigotta di cui non solo Napoli è pregna, ma l’intero mondo cattolico. Ma  Vico Sirene  è anche racconto  di una forza d’animo, di una solidarietà, di un affetto sincero che lega queste persone e che non può, nonostante tutto, essere scalfito. I personaggi, ben delineati,  sono tutti attraversati da guizzi d’ironia che definiscono il sopravvento della vita sulla morte. Tre storie di crudeltà, di solitudine, di violenza, di passaggi temporali che mutano le persone e i loro sentimenti, descritti attraverso una magistrale scomposizione della realtà da un’età all’altra, da un personaggio all’altro, da un ambiente all’altro, il tutto sorretto da uno spirito umanistico che fa di Calvino un intenso poeta. Questi testi scandagliano i drammi di un’umanità relegata ai margini della storia, con la quale diventa moralmente necessario confrontarsi. Per il superamento di quei luoghi comuni di cui è imbevuta la cultura ufficiale, che da sempre affronta i problemi senza intelligenza né sensibilità, restando ancorata a pregiudizi che la rendono  materia morta. Calvino domanda, non dà risposte. E così facendo riporta l’uomo di fronte a se stesso. Ma  è proprio questo, credo,  il fine della poesia. Fortunato Calvino - La Statua- Ordinaria violenza- Vico Sirene. Roma, Bulzoni 2011  pp. 151, 13,00 euro



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